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NINE INCH NAILS – Pretty Hate Machine – 1989

Posted on 28/04/2016

Dopo l’ottimo singolo di Down In it, numerose attenzioni da parte delle major del settore e un disastroso tour al fianco degli Skinny Puppy (che mostrò tutti i limiti di un gruppo live composto effettivamente dal one-man-band Trent Reznor), la casa discografica dei Nine Inch Nails, la Nettwerk, li libera dal contratto consegnandoli nelle mani della TVT Records. Senza troppa cura, Reznor firma il contratto “della sua vita”, che dal lato legale diverrà sinonimo di guerra, mentre dall’altro, proprio per una questione di antagonismo e conflitto, formerà quella sua feroce critica alle logiche di mercato e alle costrizioni delle case discografiche durante gli anni ’90 e a seguire.

Il 20 ottobre 1989 esce il primo album in studio: “Pretty Hate Machine” (Halo 2), ed è subito Boom! Fortemente influenzato dai tre capisaldi dell’Industrial di fine ’80 [“The Land of Rape and Honey” (Ministry), “Front by Front” (Front 242), “VIVIsectVI” (Skinny Puppy)] usciti tutti nel 1988, la “graziosa macchina dell’odio” riesce al primo colpo a stupire. Interamente scritto, suonato e arrangiato da Reznor, il contenuto potrebbe sembrare quasi un rock elettronico melodico (“brutta copia dei Depeche mode” lo definì la casa discografica Carlyle) se l’album non avesse un lato oscuro, un secondo volto potente e graffiante. Le atmosfere dark, l’uso della drum machine, del sintetizzatore, la passione per l’elettronica, fanno da ecosistema per il talento di Reznor che sorge in attesa di esplodere, grazie alle sue ritmiche, alle influenze più disparate, alla sua preparazione tecnica, ma soprattutto alla sua estrema sensibilità e senso melodico. Proprio l’alchimia di questi elementi è stata capace di generare pezzi di rara introspezione raggiungendo profondità tali da far breccia nell’intimo umano più di ogni altro artista della scena industrial precedente; abile al punto da fare proprie le tematiche anticonformiste, scomode e violente che contraddistinsero i giovani dell’epoca e che fecero di questo album il loro manifesto. La copertina dell’album, ad opera di Gary Talpas, è invece caratterizzata dal contrasto tra la sobria eleganza del font e l’acidità dei colori dell’immagine, solamente intuibile, che a detta dello stesso Trent non è altro che “la foto delle pale di una sorta di turbina, allungata verticalmente in modo da apparire un po’ simile a ossa o una gabbia toracica”.
L’album si apre con “Head Like a Hole”, caratterizzato da un giro di basso che introduce la voce graffiante di Reznor, dapprima pulita e poi in screaming, nel ritornello che raccoglie le redini di numerose trame e loop di drum machine; queste ritornano nel finale in un crescendo che vuole proclamare l’idiozia e oscurità che si nascondono dietro il culto del dio Denaro.  Non fa in tempo a finire con il capitalismo che Trent passa a Dio in una “Terrible Lie” dura, quasi marziale, sempre con un ampio uso di basso, sintetizzatore e percussioni, mentre introduce controcanti dissonanti e ruvidi provenienti dall’Oltreverso elettronico. Secondo Trent, continuiamo a pregare perché abbiamo bisogno di qualcosa in cui avere fede, preferendo la menzogna di un Dio che non risponde, che non dà segni, che non esiste, al credere semplicemente in noi stessi. “Down in It”, caratterizzata da un ritmo dal sapore rap, arricchito da un’escalation di synth e urla filtrate, racconta l’esperienza dell’Eroina, passando dalla trascendenza della completezza allo schianto al termine dell’effetto, che ti catapulta in un mondo reale, ostile e angoscioso al quale si preferisce dire addio. Il giro di basso slap di “Sanctified” introduce e accompagna un brano che inneggia alla schiavitù del sesso, capace di asservire anche l’uomo più risoluto alla volontà della donna [appunto la “graziosa macchina dell’odio”), passando per riff di chitarra ritmica e distorta e campioni che includono il brano del film Midnight Express (1987), alterato al punto da sembrare un oscuro canto gregoriano. Bisogna arrivare al quinto brano, “Something I Can Never Have”, per comprendere il livello effettivo di Reznor, che tira fuori tutta la sua profondità in un pezzo che unisce effetti ambient, un testo a tratti solo sussurrato e un tema al piano indimenticabile, e che non a caso verrà preso da Oliver Stone per una delle scene più introspettive del suo Natural Born Killers (1994); tra lacrime e dolore la canzone racconta del desiderio di avere l’unica cosa che non si può più avere: la propria donna che ti ha appena lasciato, adducendo false scuse che si riveleranno essere le menzogne di un tradimento già consumato.  Con il rock di “Kinda I Want To” finalmente la chitarra è dominante, accompagnata da loop di percussioni in un nuovo crescendo che descrive l’indecisione del desiderio di commettere un “peccato”, un “Sin” che arriva pochi minuti dopo con un ritmo serrato, incalzante, in un continuo susseguirsi di loop e arpeggiatori, induriti da un riff memorabile di chitarra distorta che accompagna il brano come tema di sottofondo fin dall’inizio. Dal profondo amore tradito, si arriva quasi al misoginismo della resa dei conti con “That’s What I Get” che narra dell’illusione di un nuovo amore, alimentato e poi distrutto dalle menzogne di lei, che al suono di ritmi tamburellanti riporta in chiaro la voce di Reznor, ripulita al punto da poterne apprezzare l’effettiva capacità canora. Insieme con le percussioni, il basso slap torna a fare da apripista in “The Only Time” che descrive il coinvolgimento sessuale ed emotivo di una sveltina, che per un breve, brevissimo istante, diventa il tutto: l’unico momento in cui sentirsi veramente vivi. Conclusione dell’album è “Ringfinger”, l’anello nuziale, la tomba, il GAME OVER, il non essere mai all’altezza secondo il partner, l’immolarsi come Cristo al perbenismo, il bendarsi gli occhi e accettare tutto solo per “lei”, scandito dai quarti della grancassa per tutto il pezzo che pian piano si circonda di synth, percussioni e assoli di chitarra. Con questo album di esordio, Reznor non ha paura di osare, nonostante sia imbrigliato nelle catene della TVT, andando a vincere tre dischi di platino e facendo mostra di un potenziale immenso e oscuro che sarà pienamente sviluppato solo negli album successivi raggiungendone i più reconditi anfratti spinosi e chiodati di dolore e perdizione.

1) Head Like a Hole
2) Terrible Lie
3) Down in It
4) Sanctified
5) Something I Can Never Have
6) Kinda I Want To
7) Sin
8) That’s What I Get
9) The Only Time
10) Ringfinger

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